Salute mentale dei giovani a rischio, Ferrannini: “Serve nuovo piano di servizi, reti e sostegno sociale”

Da inizio pandemia, grande attenzione è stata rivolta alle categorie “più fragili” della popolazione: anziani, pazienti psichiatrici, disabili, soggetti con malattie gravi o affetti da dipendenze patologiche. Tuttavia dal primo semestre del 2021, con un quadro più completo delle ripercussioni del lockdown sugli italiani, gli esperti sono d’accordo: quando si tratta di salute mentale, siamo tutti soggetti fragili. Da qui l’allarme, lanciato anche da Oms: con la pandemia, le sofferenze mentali dei giovani sono aumentate soprattutto durante la seconda ondata, quando i disturbi dei ragazzi sono venuti a galla in tutta la loro complessità.

Secondo varie Società Scientifiche del settore (Società Italiana di Psichiatria-SIP, Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica-Siep, Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza-Sinpia) e secondo il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (Cnop), la salute mentale è sempre più a rischio, soprattutto fra i ragazzi, dove emergono fenomeni come autolesionismo, disturbi alimentari, auto reclusione, tentativi di suicidio, ma anche i disturbi legati all’ansia, alla depressione e all’abuso di sostanze. Per questo, tutti i professionisti del settore ritengono necessario oggi un nuovo Piano Nazionale per la Salute Mentale. Quali sono le cause delle sofferenze psichiche dei più giovani? Cosa rischiano? Come un nuovo Piano per la Salute Mentale, fondato sulla situazione attuale, può essere utile a migliorare la situazione? Lo abbiamo chiesto al dottor Luigi Ferrannini, già Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze dell’ASL 3 Genovese, Professore a contratto Unige.

Dottor Ferrannini, qual è il quadro generale sulla sofferenza psichica e psicologica nei più giovani?
“Occorre innanzitutto fare una distinzione tra i disturbi psichiatrici conclamati (sofferenze più gravi che vanno  trattate e curate in ogni caso) e l’area complessiva della salute mentale, che riguarda anche disturbi psicologico-psichiatrici più leggeri, ma soprattutto il livello della salute mentale di una popolazione. Un’emergenza pandemica come quella del Covid introduce inizialmente un problema di crisi della salute mentale complessiva, ma in alcune persone può anche introdurre patologie conclamate più gravi, specie se tali persone sono già affette da disturbi psichiatrici. Questo distinguo è importante. Perchè la salute mentale è anche l’attesa, la speranza, lo sguardo verso il futuro, un insieme di aspetti che riguardano il benessere psichico di una persona, oggi messo a dura prova dal Covid. Ne emerge senza dubbio una situazione di ansia e disturbo dell’umore da parte dei più giovani ma non solo. Ciò è accaduto in un periodo nel quale i servizi erano stati fortemente indeboliti rispetto a quelli che avevamo costituito all’inizio degli anni Novanta: dal punto di vista del numero di personale, della formazione e della multiprofessionalità. Un esempio: il Progetto Obiettivo Salute Mentale, nelle sue varie versioni dal 1994 al 2013, prevedeva che almeno il 5% del fondo sanitario nazionale fosse investito sui disturbi psichiatrici, ma in tutti questi anni siamo approdati a un risultato di soltanto l’1,5/2%. Proprio per la forte richiesta sui temi di salute mentale, pervenuta da tutte le società scientifiche di settore, è stata finalmente indetta il 25 e 26 giugno una Conferenza nazionale per la salute mentale da parte del Ministero. Questa dovrebbe servire a fare il punto sui bisogni della popolazione, sulle modifiche del quadro epidemiologico, sulla tipologia di persone che stanno soffrendo di più e sugli interventi necessari nel campo della salute mentale in ottica preventiva e curativa. Attenzione però, gli interventi in questo caso non devono essere solo farmacologici ma anche e soprattutto psico-sociali: parlo di interventi di sostegno psicologico, interventi riabilitativi e di ascolto. Anche perchè le neuroscienze hanno dimostrato che i disturbi psichiatrici non hanno una patogenesi unitaria, ma sono il prodotto di una complessità definita attraverso il modello biopsicosociale. Abbiamo quindi bisogno di trattamenti integrati, multipli e differenziati”.

Cosa è cambiato dalla prima ondata del Covid alla seconda ondata? Perchè simili sofferenze nei giovani sono emerse più tardi?
“Durante la prima ondata, tutti (soprattutto i giovani) hanno pensato che la situazione potesse essere passeggera e che tutto si sarebbe risolto nel giro di pochi mesi. La speranza di una soluzione rapida era molto forte all’inizio. Durante la seconda ondata però i livelli di timore e preoccupazione sono sensibilmente aumentati, per tutte le categorie d’età. Per i giovani, la preoccupazione maggiore riguardava l’impossibilità di andare a scuola, la perdita delle relazioni sociali con gli amici, la difficoltà nel trovare lavoro: tutti problemi che hanno di fatto isolato i giovani. Per le persone di mezza età la preoccupazione ha riguardato la perdita del lavoro, mentre per gli anziani il timore era quello di rimanere soli a casa o all’interno delle Rsa, senza poter condividere con le persone care emozioni e paure, attraverso le visite dei parenti, amici, persone significative nella loro vita”.

Può influire anche un certo “senso di colpa” nei più giovani, a volte visti erroneamente come i soli “responsabili” della diffusione del contagio?
“Il senso di colpa senza dubbio è vissuto diversamente da persona a persona. Ovviamente non tutti i giovani hanno vissuto questo senso di colpa: lo hanno percepito sicuramente i giovani più attenti, responsabili, con uno sguardo attento alla comunità e alle problematiche sociali e aiutati soprattutto dalla loro famiglia. Altre fasce di giovani invece hanno reagito con comportamenti più aggressivi e meno opportuni. In qualche misura le reazioni sono state diverse a seconda delle caratteristiche psicologiche della persona e del contesto famigliare, sociale ed educativo”.

Cosa è necessario affinchè si agisca efficacemente sulla problematica della salute mentale dei giovani dal punto di vista sociale, dell’ascolto e della comunicazione?
“È necessario innanzitutto rimettere mano ai servizi. Dobbiamo ridare la possibilità ai servizi di avere il numero di operatori e le professionalità giuste per operare efficacemente e farsi carico di questa emergenza. Senza questo step fondamentale avremmo soltanto un grande scarto tra domanda e possibile risposta: la risposta dei servizi non deve tradursi in una semplice visita, ma anche in una presa in carico continuativa del problema e della persona. Inoltre, in questa fase abbiamo colto l’importanza non solo dei servizi, ma anche delle reti. Da anni abbiamo lavorato alla costruzione di un rapporto con i medici di medicina generale per gli adulti e con i pediatri di libera scelta per i più piccoli: a maggior ragione in questo periodo tali rapporti vanno rinforzati. Dobbiamo investire nella ricostruzione di servizi accessibili, con interventi precoci e integrati. Naturalmente, è necessaria anche una forte leadership e una governance in grado di gestire tali servizi e soprattutto costruire reti: torniamo a parlare anche di socio-sanitario quando affrontiamo tematiche di salute mentale, senza soffermarci solo alla sfera sanitaria. Diamo sostegno alle famiglie nella gestione dei loro figli e investiamo in formazione da parte di operatori sanitari: le scuole di formazione per psicologi, neuropsichiatri infantili, psichiatri, assistenti sociali, infermieri, tecnici della riabilitazione di vario tipo dovrebbero  aggiornare i loro corsi per far fronte alle nuove esigenze dettate dalla pandemia”.

Proprio per questo è emersa l’esigenza di un nuovo Piano Nazione di Salute Mentale: quali best practice è necessario seguire per la costituzione di tale piano? Quali gli errori da evitare?
“Bisogna tenere conto del fatto che l’ultimo piano che è stato attivato è il cosiddetto Piano di Azione Nazionale di Salute Mentale (PANSM) nel 2013, correlato al piano dell’Oms 2013-2020, ma pensato solo per i primi tre anni dal 2013 al 2015. Evidentemente c’è bisogno di un nuovo Piano che tenga conto soprattutto degli avvenimenti degli ultimi anni a livello sanitario e socio-sanitario. L’errore più grande che si possa fare nel delineare un nuovo piano nazionale è non costruire reti ma soltanto servizi separati: bisogna lavorare su reti di intervento di assistenza psichiatrica e salute mentale. Altra best practice da tenere a mente è quella di costruire percorsi e non soltanto luoghi: vi è un’enorme differenza tra la semplice ricerca di comunità terapeutiche dove ospitare le persone e un percorso di cura che si prenda carico in maniera continua delle loro sofferenze psichiatrico-psicologiche. Al momento si sta lavorando su concetti più ampi quali domiciliarità e cohousing, reti di collaborazione tra servizi con competenze diverse a seconda delle fasce d’età”. In ultimo, non dimentichiamo mai questo concetto: nell’area della salute mentale, le risorse più preziose sono le persone e non le tecnologie”.

Cosa significa oggi vedere così tanti giovani attivi e propositivi nella scelta consapevole della vaccinazione per il bene della comunità?
“Significa sapere che i cittadini del futuro sono cittadini attenti alla loro salute, consapevoli e con un grande senso di comunità. Sono giovani in grado di capire quando è necessario mettersi in gioco, con tutte le attenzioni del caso, per affrontare insieme un’emergenza. In questo, è come sempre importante la famiglia dietro ogni singolo giovane. Lo sguardo al futuro dei giovani va sempre sostenuto, rinforzato, incoraggiato: è necessario comunicare con loro attraverso gentilezza, affetto e fiducia negli interventi messi in campo dalle sfere del sanitario e socio-sanitario per affrontare uniti la pandemia”.

 

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