Covid-19 e seconda ondata: cosa non funziona? Una riflessione sui dati del report Altems

Nuovi casi di Coronavirus, più decessi e tamponi effettuati. I dati riguardanti la seconda ondata della pandemia in Italia ruotano oggi attorno a questi tre indicatori. Numeri importanti, per un’emergenza che riguarda ogni sfera del sanitario e del socio-sanitario. Ma quali sono i dati inerenti ai modelli organizzativi in risposta al Covid-19? In altre parole: quali dati rappresentano le implicazioni delle diverse strategie adottate dalle Regioni in Italia per fronteggiare la diffusione del virus e le conseguenze del Covid in contesti diversi?

Un incrocio tra questi nuovi dati e i bollettini giornalieri dei diversi territori può fornire utili indicazioni per il futuro, nonché insegnamenti derivanti da questa drammatica esperienza. Per tracciare il futuro dei sistemi sanitari e socio-sanitari abbiamo parlato con il dottor Americo Cicchetti, coordinatore dell’utlimo report di Altems (Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari) con dati sui modelli organizzativi di risposta al Covid aggiornati al 10 novembre scorso. Cicchetti è anche Professore di Organizzazione Aziendale alla Facoltà di Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Dottor Cicchetti, partiamo dai dati più significativi dello studio: quali sono i risultati più interessanti emersi dall’indagine?

«Più che un’indagine, quella di Altems è un’attività continua che si aggiorna di settimana in settimana: dal 31 marzo 2020 pubblichiamo ogni sette giorni i nostri lavori di monitoraggio. Siamo adesso alla 28esima settimana. I dati più importanti dal 3 al 13 novembre 2020 riguardano l’incidenza e la percentuale di nuovi casi: questa, secondo i dati, è stata la settimana con il più alto numero di casi di Coronavirus da febbraio 2020. Abbiamo riscontrato una forte accelerazione di casi che tuttavia negli ultimi giorni sembra essersi affievolita, probabilmente dall’effetto delle restrizioni dell’ultimo Dpcm. Altro dato importante riguarda la Valle d’Aosta, che ha raggiunto un tasso di mortalità settimanale superiore al tasso di mortalità registrato nella regione Lombardia durante tutti mesi della pandemia fino a oggi. Chiaramente la popolazione valdostana non è numerosa come quella lombarda, ma questo dato è preoccupante e deve far riflettere. Non è solo una questione relativa a quante persone si infettano, ma al rischio di morte più elevato dei soggetti positivi».

Obiettivo del report è quello di presentare un confronto sistematico dell’andamento della diffusione del Covid-19 a livello nazionale e in 6 Regioni italiane: Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Marche e Lazio. Cosa è emerso dal confronto fra queste? Quali sono le differenze principali emerse dallo studio tra Nord Italia, Centro e Sud?

«Nella prima fase della pandemia, da febbraio a fine estate 2020, abbiamo assistito a una forte differenza tra regioni in termini di incidenza del Covid, tra Nord, Centro e Sud. Come abbiamo potuto vedere, il Covid nella prima fase si è concentrato soprattutto nel Nord Ovest d’Italia. Ma da ottobre in poi le cose sono totalmente cambiate: non esistono più differenze così nette tra regioni del Nord, del Centro e del Sud. Certo, persiste comunque una tendenza del virus a concentrarsi ancora nel Nord Ovest del nostro paese, ma le differenze fra regioni non sono poi così nette come prima. Tale risultato è indubbiamente stato causato dagli effetti dell’estate, che ha portato il virus in tutti i territori».

Sono emersi dati interessanti in merito al settore socio-sanitario e le Rsa? Alcuni dati possono mettere in luce l’importanza del settore socio-sanitario in questa emergenza Covid?

«Certamente la collaborazione tra settori sanitario e socio-sanitario è necessaria e auspicabile, ma occorre farla in modo corretto e sinergico: in altre parole, evitando di utilizzare le Rsa come strutture a metà tra assistenza di soggetti anziani e luoghi per cure intermedie al Coronavirus. Alcune regioni come Lazio, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, hanno potuto utilizzare Rsa e altre strutture socio-assistenziali unicamente allo scopo di assistere e curare i malati di Covid, alleggerendo il carico di lavoro agli ospedali».

Quali differenze, in negativo e in positivo, sono emerse dal confronto tra la settimana dal 3 al 13 novembre e quella precedente?

«Come era logico aspettarsi, abbiamo notato un peggioramento di tutti gli indicatori nell’ultima settimana rispetto a quella precedente. Abbiamo ben 12 regioni su 21 che hanno saturato di oltre il 100% i posti letto di terapia intensiva aggiuntivi, cioè creati ad hoc per il Covid. Possiamo considerare un benchmark in questo periodo l’utilizzo di circa il 30% dei posti letto di terapia intensiva per i malati covid: superata questa soglia, il sistema sanitario deve essere bloccato per altri pazienti con malattie gravi come i tumori. Questo purtroppo è già successo in Veneto, Lombardia, Puglia, Calabria e Campania, dove ricoveri e interventi chirurgici, anche quelli da realizzare entro 30 giorni, sono stati bloccati salvo emergenze».

Gli apprendimenti per il futuro, secondo quanto indicato dal report, sono quattro: evidenziazione delle inefficienze, flessibilità, decentralizzazione, organizzazione a rete. Per ognuno di questi punti, quali dati sono da tenere a mente e le indicazioni per il futuro?

«Per quanto concerne l’evidenziazione delle inefficienze, il problema fondamentale riguarda proprio i dati: bisogna fare in modo che il patrimonio di dati generati in questo periodo sia disponibile ad analisi e ricerca, senza ridurre il tutto a discussioni politiche. Sulla flessibilità: il sistema sanitario pubblico deve sviluppare più agilità nel reagire agli shock. Questo banalmente lo si fa preparandosi e formalizzando procedure di risposta chiare e puntuali. Il tema della decentralizzazione riguarda le organizzazioni e non il servizio sanitario: bene mantenere la logica delle autonomie regionali, ma ci vuole un certo coordinamento a livello centrale su gestione dei dati, della tecnologia, programmazione e monitoraggio; dall’altro lato le organizzazioni, tra aziende sanitarie e ospedali, devono imparare a decentralizzare alcune competenze, coinvolgere maggiormente i medici nel management e riutilizzare meglio il territorio: abbiamo un sistema ancora troppo “ospedalocentrico” e povero di attività assistenziale domiciliare. Parlando di organizzazione a rete, dobbiamo imparare a costruire reti di patologia in grado di prendere in carico i problemi dei pazienti. Non bisogna infine dimenticare di fare rete istituzionale con tutte le forze del sistema sanitario tra pubblico, privato e terzo settore. Se saremo bravi a mettere in campo tutti questi insegnamenti, allora possiamo salvarci e tracciare un futuro migliore per la sanità in Italia».

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